Conversando tra “Un oggi alla volta” una “Mezzanotte Zero,Zero” e una “Bambola di Pezza” con Nicola Conversa.

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Nicola Conversa sul Red Carpet del Festival del Cinema di Roma con il suo primo lungometraggio “Un Oggi alla volta”

L’intervista al regista: “La felicità sono quei 10 secondi in cui il mondo decide di sorriderti”.

SCRITTO DA: Carmela De Rose

Trasmissione energetica dell’osservare è stato quel secondo fermatosi tra gli applausi infiniti e le lacrime agli occhi degli spettatori presenti la sera di quel sabato 21 ottobre alla prima proiezione di “Un Oggi alla volta” opera prima di Nicola Conversa, selezionato dal festival del Cinema di Roma. Nicola è un giovane regista di origini pugliesi, con questo lungometraggio è riuscito a donare la forza nell’abbandonare quell’idea ineluttabile di un tempo che pensiamo di aver perso o che vivere è come una gara a che arriva prima alla cassa della vita. Come se le persone, le situazioni si potessero comprare. L’idea attuale di un amore vivibile solo virtualmente. Ma c’è ancora chi come Marco, crede che l’amore vero e romantico possa ancora esistere. Quando in mezzo a mille mi piace, una chiamata ad un numero sbagliato può essere occasione. Quando la disillusione di una giovane ragazza cresciuta già troppo in fretta vive un oggi alla volta ma con la speranza morta sull’amore, ad un certo punto arriva: “Marco non ha importanza, possiamo farlo anche da amici”. Come per sottolineare che è la convenzione sociale è ad indurre l’etichettare dei rapporti. Conversando con il regista Nicola Conversa:

Durante la prima proiezione del tuo film “Un oggi alla volta” al festival del cinema di Roma, hai raccontato un aneddoto della tua infanzia che è legato al momento in cui hai capito che avevi il sogno di diventare regista. Cosa consiglieresti ad un giovane ragazzo che sogna anche lui tutto ciò? Quale ingrediente hai usato per arrivare dove sei arrivato?

“Domanda facilina eh? Dunque, l’aneddoto che ho raccontato di quando i miei genitori a 9 anni mi portarono a vedere Mulan che poi erano finiti i biglietti e ne ho visto un’altro non è un qualcosa di romanzato, è tutto vero. Secondo me, decidere di fare il regista è spasmodico perché non è un lavoro semplice e facile, anzi per alcuni neanche viene considerato come un lavoro. Il numero di opere prima all’anno è veramente inesistente e scarso quindi vale davvero la canzone “Uno su mille può farcela”. Il consiglio che posso dare, può essere sintetizzato con la frase di un film “l’ossessione batte il talento”. Io mi rivedo molto in questa frase perché ho cercato di metterci tanta “tigna” che alla fine neanche le porte in faccia che sono state maggiori dei momenti felici, sono riusciti a fermarmi. Questo lavoro mi ha insegnato che devi ringraziare tutti i no che prendi e prenderai perché la moltitudine di quei no e delle porte in faccia è superiore a quei momenti di felicità. Ma in quei momenti di felicità ci devi credere che potranno esistere e soprattutto bisogna difenderli. Il mio consiglio è quindi di essere ossessionati nella maniera più bella del termine, cioè svegliarsi la mattina con la voglia di farlo così come la sera. Perché se non ci credete voi non ci può credere nessuno. Quindi il mio ingrediente è stato ossessionare nel senso positivo, per cercare di convincere a darmi una opportunità.”

La storia che hai pensato che racconta di un ragazzo a-social che ancora crede nell’amore vero e spera realmente che possa trovare questo amore che durante il fil trova, vive ma fino ad un certo punto, non anticipiamo il finale. La curiosità è se in questo personaggio (Marco) c’è in realtà questa astrazione latente riflessa del tuo stesso inconscio e del desiderio di trovare il vero amore o che pensi di averlo trovato ma in qualche modo successivamente perduto?  C’è qualcosa di te?

“C’è tantissimo di me nel personaggio Marco, hai detto bene. È una riflessione di me stesso, cioè di me stesso a 20 anni. Io a 20 anni sognavo di innamorarmi, ho avuto mille difficoltà in questo e anche mille no. Ero disincantato quando avevo 19 anni, i social non erano così presenti nella vita. Quindi si Marco è un a-social forse perché io a quell’età anche lo ero. Parlo di me fino ad un certo punto perché poi cresci e l’amore l’ho trovato e in tantissime forme. E tutti i ti amo che ho detto nella vita sono stati tutti importanti come quello di Marco che anche se ora faccio io spoiler lo spara subito al primo bacio. Però mi è anche capitato che quando l’ho detto non era forte abbastanza come quelli che dico adesso da innamorato. Quindi si nel senso è una proiezione di me stesso più caricaturale. In fin dei conti in ogni film e in ogni storia c’è qualcosa che si attinge dalla propria vita riflettendola nell’opera. La sceneggiatura l’ho scritta insieme a Giulia Uda. Lei si è occupata dei personaggi femminili che sono molto disillusi. Io mi sono occupato di quelli maschili e in ogni personaggio ho voluto donare un po’ di goffaggine che mi rappresenta.”

Hai raccontato che diverse dinamiche della storia, tipo quella del numero di telefono sono state ispirazioni di vita quotidiana. In questo film c’è qualcosa che invece ti ha ispirato guardando qualche film o quale regista ti ha ispirato?

“La storia del numero di telefono è vera, è fa talmente sorridere che la persona che ha sbagliato il numero di telefono era in sala quella sera a guardare il film. Mi ha fatto abbastanza ridere come a volte nella vita si chiudono dei cerchi. Io sono molto ossessionato dal cinema italiano. Nel senso vedo tutto e guardo un film al giorno sempre da anni. Il problema è che il cinema americano l’ho sempre guardato sorridendo perché l’ho visto sempre come una roba che non sarò mai in grado di fare. La vedo come una cosa abbastanza lontana da me. Mentre quello italiano l’ho studiato molto, e diciamo che i registi che amo sono Pieraccioni, Muti, Genovese, Virzì. Mi piace tutta quella commedia che è successa prima del 1998, perché ci vedo una pulizia di linguaggio, una sorta di voler raccontare una storia. Io amo quelle commedie italiane che fanno ridere non abusando delle parolacce, che hanno una comicità di situazione, non di un main carattere che fa le battute. Quindi osservando quei film ho acquisito nel linguaggio una sorta di leggerezza. Per esempio il mio film preferito è “Il Ciclone” che non è mai volgare, funziona perché è una commedia che ti lascia un qualcosa ma che ti fa anche sorridere. Quindi ho sempre cercato di ispirarmi a quel cinema italiano, non alle commedie all’italiana quelle che fanno ridere e basta. Io sono ossessionato dalla sceneggiatura, perché penso che un film se non è scritto bene è difficile poi girarlo, soprattutto se si tratta di un’opera prima. Mi sono reso conto che se “Un oggi alla volta” fosse stato scritto male e con il poco tempo che avevo a disposizione come opera prima e con i pochi mezzi sicuramente non sarei riuscito a portarmelo a casa. Invece è stata una scrittura abbastanza intelligente che sicuramente avrei fatto un film che avrei amato guardare, e che soprattutto lasciasse trasparire un messaggio di base. Io l’ho scritto perché volevo anche riflettere sul tempo, poi tutto il contorno della commedia è solo presente nell’ultima parte. Spero che questo sia il cinema che continuerò a fare in futuro.” 

Ritornando un po’ nel passato sappiamo che tu nasci dal web e poi successivamente hai iniziato a dirigere diversi corti, tra i quali “Mezzanotte zero, zero”, grazie al quale sei riuscito a classificarti nella cinquina ai David di Donatello del 2018. Com’è stata questa esperienza? Ci puoi raccontare un ricordo legato a quel momento?

“Mi fa piacere rispondere a questa domanda poiché non me la fa mai nessuno. Perché per me il corto “Mezzanotte Zero, Zero” dopo il film “Un oggi alla volta” è uno dei figlioletti a cui tengo di più. Perché tutto è nato per magia, il corto l’ho realizzato con un budget minimo e all’interno ci ho messo delle persone che hanno abbracciato il progetto perché gli è piaciuto l’entusiasmo. Continuavo a dire che lo avrei iscritto ai David che sarei riuscito ad arrivarci, ci credevo tantissimo, sentivo nella pancia di avere una bellissima storia. Lo abbiamo iscritto e sono trascorsi 6 mesi, in quel periodo della vita ammetto anche di aver avuto l’idea di mollare completamente questo sogno perché non stava andando come desideravo. Entrare nel mondo del cinema è molto complesso. Avevo mille dubbi nella testa e nel frattempo avevo completamente dimenticato l’iscrizione del corto ai David. Mi ero dato anche un giorno di scadenza in cui avrei smesso di sognare il cinema, magari avrei continuato a fare spot. Poi tre giorni prima di questa deadline, il mio telefono ha squillato era il giorno del mio compleanno e mi hanno comunicato che ero stato selezionato alla cinquina dei David. Obiettivamente la mia carriera da regista è iniziata proprio quel giorno, perché poi il giorno dopo mi ha chiamato la disney. Da quel momento non mi sono più vergognato di dire che ero un regista. Perché prima dicevo che avrei voluto farlo, in quel momento ho preso coscienza che lo avrei fatto. Quel corto penso che mi ha salvato la vita, è stata la svolta della mia carriera.” 

Dal momento in cui hai citato prima la disney. Per loro hai diretto “School Hacks”, poi anche “Pv-i primi anni” prodotta da Fascino e Rai Gulp. Nel 2021 hai scritto la serie “Halloweird” prodotta da Stadbyme e distribuita da Rai Gulp. Insomma un curriculum straricco. Arrivi anche alla 79esima edizione della mostra del cinema di Venezia con il corto “La bambola di pezza”. 

“Si, la mia vita è stata abbastanza strana, tutto è successo in modo molto inaspettato. In un periodo molto difficoltoso della mia vita che è stato quando mi sono rotto il tendine del ginocchio, sono stato costretto a stare fermo in casa per quasi due mesi. Per salvarmi dalla tristezza che avevo per non usare il termine depressione, vedendo tutti al mare ho cercato di sfogarmi scrivendo. “Un oggi alla volta” è nato proprio in questo periodo della mia vita, praticamente quando ero costretto a stare in casa a fare fiseoterapia. Nel frattempo avevo visto questo contest “One more” di Manuela Cacciamani che consiste in un contest in cui mandi la sceneggiatura e scelgono quale produrre con la possibilità di andare a Venezia. Io partecipai ma anche li me ne ero completamente dimenticato. Mi ero ispirato ad una storia che avevo letto all’epoca online sugli adescamenti minorili sul web durante il covid che erano aumentati del 300%. Allora ho deciso di scrivere questa storia perché sapevo che poteva essere utile. Quando ho ricevuto la chiamata che ero stato selezionato per produrre il corto pensavo fosse un pesce d’aprile, invece era tutto vero. Li è stata la mia prima volta che ho potuto girare in un set vero rispetto all’altro corto che avevo già fatto. È stato un vero sogno girare a Roma e con una vera squadra di lavoro, sapendo che forse sarei andato davvero al festival di Venezia. In quel momento è cambiato un po’ tutto perché era per me l’opportunità di entrare nel cinema dalla porta principale con un cortometraggio coprodotto anche da Rai Cinema. Questa è stata una occasione per farmi conoscere.”

Quest’anno non solo “Un oggi alla volta” ma hai lavorato anche come regista e sceneggiatore al docufilm “Pooh- Un attimo ancora”….

“Sono molto affezionato a questo lavoro perché i Pooh sono la colonna sonora del matrimonio dei miei genitori. Io li ascoltavo quando ero bambino perché quando viaggiavo insieme a loro li mettevano in macchina. I Pooh è inevitabile non conoscerli e come quando vai a catechismo e ti insegnano le canzoncine della chiesa. Quando mi è stata data questa opportunità, ammetto che all’inizio ho pensato anche di rifiutare perché avevo paura di fare il solito documentario specialmente sui Pooh ne avevano già fatti tanti. Quindi non volevo rischiare di fare un documentario scontato. Dunque insieme a Manuela ho proposto di fare una sottospecie di docufilm. Un documentario cioè che avesse una parte di fiction e una parte documentaristica. Questo poteva essere anche un rischio anche di essere un salto nel vuoto.”

Come hai lavorato su questo aspetto del docufilm?

“Ho avuto difficoltà inizialmente a farlo comprendere, perché in America si chiamano Mockumentary, più o meno sono quelli che becchi su netflix, il mescolare il reale insieme al fittizio. In questo lavoro è stato difficile far digerire che, una attrice avrebbe interpretato una regista che per un documentario dell’amore andava ad intervistare i Pooh, perché fondamentalmente la storia dei Pooh è una storia di amore di amicizia. Farlo capire è stato complicato. Poi c’è stata tanta paura su come andasse perché si andava a mescolare due mondi. Abbiamo fatto questo quadruplo salto nel vuoto di chiamare come linea fiction tutti i ragazzi provenienti da internet quindi non c’erano attori. C’erano invece tutte persone che non sapevano recitare ma solo follower e provarli a mettere insieme per vedere cosa ne sarebbe uscito fuori è stata follia. Il risultato è stato record di share su Rai 1 per un documentario che obiettivamente neanche nei miei sogni più remoti avrei pensato che sarei riuscito ad arrivare qui. I fan dei Pooh sono stati sicuramente molto utili e ci sono state diverse critiche positive che hanno apprezzato l’unione cross-mediale di questi due mondi. Questo è stato un lavoro molto complicato nella scrittura rispetto alle riprese che invece sono state bellissime. Ho avuto l’onore di stare quasi per ogni membro dei Pooh più di 5 ore a casa loro e parlare. Peccato che molte parti sono state tagliate. Sono stato felice del fatto che ho potuto vivere il loro mondo. Non si sapeva neanche che ci sarebbe stata una reniuon nell’ultima intervista, perché dopo questo lavoro hanno iniziato a suonare insieme e hanno annunciato il tour. Sicuramente questo è accaduto anche perché a loro ha emozionato rivivere dei momenti bellissimi durante le riprese del docufilm. Questa decisione successiva la sento in parte anche un po’ mia.”

Da dove nasce la tua passione verso la comicità?

“Penso che la passione verso la comicità nasca dalla mia famiglia, perché io ho un famiglia molto molto divertente. Se dovessi farti un paragone penso che io sono quello meno simpatico rispetto a tutti gli altri membri. Siamo 11 nipoti, ho degli zii meravigliosi e ho dei ricordi stupendi e comicissimi dei natali passati insieme a loro. Poi penso che deriva anche dal fatto che sono cresciuto in una città come Taranto che è tanto folcloristica. Sono pugliese e come tutti i pugliesi abbiamo i nostri lati simpatici. Io ho gli stessi amici da quando ho 12 anni, ho la stessa identica comitiva e mi sono sempre divertito tantissimo. Quindi penso che la mia passione per la comicità nasce incosciamente da questo. Ne parlavo l’altro giorno, due battute del film in particolare sono intercalari o gag che ho vissuto con la mia comitiva. E sentire un cinema intero che rideva a quelle battute, mi ha fatto riflettere. Ho vissuto una adolescenza e una infanzia bellissima e comicissima e questa cosa l’ho trasportata anche sul set. Io ho preteso che gli attori durante le riprese stessero sempre insieme, che andassero a mangiare sempre insieme. Ho cercato di ricreare clima di gita da terza media e ci siamo divertiti tantissimo e questo penso che è rimasto incollato nella pellicola.”

Mi piacerebbe chiudere l’intervista con una domanda un po’ più filosofica: cos’è per te la felicità?

“La felicità potrebbe essere tante cose. Può essere un bacio alla tua fidanzata quando ti svegli, trovare l’ultimo cornetto alla crema nel tuo solito bar, le sorprese di compleanno che ti aspetti e poi ti arrivano. Cioè secondo me la felicità sono quei 10 secondi in cui succede qualcosa di talmente bello che in un solo colpo diventi felice. Ma possono essere anche delle stupidaggini. Per me se dovessi descriverla è stata quel sabato pomeriggio nel cinema. Io non penso di essere mai stato così felice, come quando ho visto le persone battere le mani alla fine del film. Talmente felice che ho avuto un blackout che non mi ricordo niente di niente. La felicità sono quei 10 secondi in cui il mondo decide di sorriderti.”

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