MARIKA ARENA

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Capitolo 3

Il gatto

Quella volta in cui un cucciolo di gatto si intrufolo’ nel deposito segnò la mia carriera di commessa come “salvatrice di piccoli ma feroci felini”. Quel giorno mi sentii come se mi avessero assegnato il Premio Nobel per aver salvato il mondo dal mostro terribile che da secoli minacciava la terra e gli esseri umani. 

Mi recai in deposito col mio carrello vuoto con l’intenzione di caricarlo di regali della nuova collection, i clienti reclamavano il barattolo della pasta dalle tinte viola/arancio “perché faceva pandant con i pensili delle loro cucine ultramoderne. 

Vidi, con la coda dell’occhio, il ricezionista, un certo C., fisico da skipper di barca a vela, con i suoi capelli lunghi legati con un codino, con i risvoltini alle maniche della polo della divisa che evidenziavano i bicipiti che maneggiava con un bastone dietro dei cartoni di Uova di Pasqua. Urlava ad alta voce in una lingua incomprensibile, forse era aramaico, lui lo conosceva bene visto che aveva studiato dalle suore, ma solo quello, perché di certo non aveva il linguaggio tipico di un religioso.

Spinta dalla curiosità mi avvicinai a lui e chiesi cosa stesse accadendo…continuo’ con la sua lingua straniera e capii solo la parola “gatto”. 

“Tutto qui? Che ci vuole a far uscire un gatto che sicuramente apprezza l’odore del cioccolato proveniente dalle Uova Kinder”

Rivestita della mia saccenza in campo felino mi proposi come regista nonché attrice protagonista della scena degna di King Kong sull’Empire State Building. 

Il gatto capi’ che dietro quel succulente cartone pieno di cioccolato e sorpresine mi nascondevo io, pronta con la mia mano nuda ad afferrarlo come un pelouche di quelli che si vincono alla giostra. Lo vidi, era piccolo, quindi la mia preoccupazione di essere sbranata svanì. Intravidi la coda che era poco più piccola di un verme solitario che però si muoveva con la stessa veemenza di un pendolo impazzito. Dissi al mio collega, che intanto si spazzolava le sopracciglia, di mettersi dall’altra parte dei cartoni in maniera tale che, se avessi mancato la presa, lo avrebbe potuto afferrare. Infilai il braccio fra i cartoni con la stessa velocità di un cobra reale che agguanta la cavia dopo aver aspettato 21 giorni prima di inghiottire nuovamente cibo. Lo presi dal collo, era arancione. Ad un certo punto giro’ la testa e vidi i suoi dentini da latte sprofondare nella mia mano e le sue unghiette muoversi come se stesse disegnando un quadro di Picasso. Nascondendo il mio dolore, allo stesso modo in cui Kate Winslet indossa un tubino taglia 38, sempre con quella superbia che un po’ caratterizza tutte le donne che pretendono di avere ragione anche quando non la hanno, corsi verso la porta del deposito e feci uscire l’Uomo Tigre. 

“Ti sei fatta male?!?”

“Ma no, non è nulla!”

Nel frattempo in mio sangue sgorgava come la  sorgente dell’acqua Panna.

“Mi sa che devi andare a farti medicare”

Il gatto mi guardava, come per dire “la prossima volta ti faccio saltare un ginocchio”.

“E dovresti fare anche una puntura, metti caso che il gatto è malato, potrebbe venirti qualche infezione”

Fortunatamente all’epoca non si andava su Google, e alla domanda “cosa fare quando un gatto randagio ti graffia” non seguiva risposta “…tumore alla pelle, tifo, vaiolo, spagnola”.

Misi un paio di cerotti disinfettando la mano graffiata e continuai il mio lavoro.

Quella sera mi salii la febbre a 38 e fui costretta a prendere antibiotico per una settimana perché la mia mano era viola e calda come un calorifero al polo nord. 

Il gatto è sempre lì, fuori il deposito, affettuoso con tutti, tranne che con me, l’astio che ci divide è più grande della Striscia di Gaza. Vedo anche schiere di commilitoni armati fino al collo pronti a difenderlo ad un mio eventuale attacco. Eh si, perché nel frattempo la bestiola ha chiamato i suoi amici in soccorso, due grossi gatti birmani tigrati che solo se li guardi alzano il pelo e muovono la coda come se stessero partecipando ad una battuta di caccia con un Lord inglese. Certo è che i gatti non dimenticano e ti puniscono quando meno te lo aspetti. 

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